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G. Marchetti, I due tempi della poesia
P. Briganti, Pezzani poeta in lingua
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Renzo Pezzani in digitale
Credits
Renzo Pezzani: i "due tempi" della poesia: [ versione stampabile ]

 

di GIUSEPPE MARCHETTI
 
In un suo ampio affresco storico – critico dedicato a L’itinerario poetico parmigiano da Cocconi a Pezzani inserito nel volume «Officina Parmigiana» curato da Paolo Lagazzi per Guanda nel 1994, Umberto Sereni scriveva:
 
«Nella Parma di fine secolo, per la gioventù studiosa – liceali del Romagnosi, convittori del Maria Luigia, universitari – la scoperta e, quindi, la pratica della poesia avvenivano come un rito di iniziazione: valevano come la testimonianza della volontà di rottura dei legami con il mondo e il tempo profano, garantivano dall’acquisizione della chiave d’accesso al mistero della vita, dal quale dipendeva la felicità.»
 
Siamo a fine del XIX secolo, secolo di avventure storiche, poetiche e sentimentali forti quant’altre mai e innestate in quella persuasione positivistica che, attraverso le “magnifiche sorti e progressive” avrebbe potuto e dovuto migliorare il mondo, allungare l’esistenza, vincere le malattie e, in pratica, conquistare la felicità, come osservava Sereni.
Nulla, invece, di tutto questo. O, perlomeno, nulla di così sicuro e certo, in Italia come nella piccola Parma.
Occupava la scena – ci si permetta l’immagine teatrale – la generazione carducciana.
Era la generazione dei Pascoli e dei Severino Ferrari, dei Panzini e di Francesco Zanetti, di Arnaldo Barilli e di Renato Serra: generazione generosa, ricca di impeti e di timori sconfitti, di sagge malinconie e anche di improvvisi ardori.
 
Uno di questi testimoni è senz’altro lo Zanetti, il poeta de La Canzone del Monte, nato a Carpadasco nel 1870, studioso di vasta cultura, che anche il suo Maestro Carducci aveva positivamente giudicato. Entrò nel giornalismo, fu a Milano, Piacenza, Bologna, a Torino, a Parma e per molti anni a Roma a partire dal 1911. Lavorò all’«Osservatore Romano»come redattore e capo redattore, e fu davvero un giornalista non solo cattolico ma soprattutto cristiano per ispirazione e impegno. La Canzone del Monte, composta del 1902,  rimaneggiata nel 1906, e accresciuta è un canto di magnifica distesa che celebra storia e gloria dell’Appennino all’ombra dei castelli e delle rocche, in particolare quella di Canossa.
Zanetti non ricordava, però, solo la natura dei monti, bensì l’associazione culturale (e sportiva) Giovane Montagna che Giuseppe Micheli aveva fondato in vista della rinascita spirituale, storica, sociale ed economica del nostro Appennino nel 1901.
 
E cantava:                                Orsù mio piccol verso, che un giorno smarrito tra i vani
                                               amori, come un rivo segreto tra l’erbe piangevi,
                                               leva la voce, al fine di cose gioconde cantiamo,
                                               poi che le muse ancora, divine sorelle, a la mente
                                               recingon la corona spirituale di grazie fulgenti.
                                               E tu, povero cuore, che miri sommerso nel pianto
                                               i cari volti, lungi, chiamare e sorridere ancora,
                                               leva la fronte al cielo, il nubilo sogno discaccia,
                                               tu nato a viver libero sui liberi ponti nativi.
                                                                                   (Primo Canto)
                                  
 
 
Risentendo innegabilmente degli echi carducciani – le sfide e le disfide risorgimentali, i canti della memoria come Davanti San Guido, delle Primavere elleniche e dei primi due libri delle Rime Nuove, almeno – la poesia dello Zanetti (1870-1938) lascia trasparire il profondo e sincero amore del poeta per la propria terra nella sua storia, nei suoi costumi, nella sua intrinseca sanità. Nel Secondo Canto questo impegno diventa centrale e determinante. Paolo Briganti, ripubblicandolo nel suo volume Poeti di Parma nel Novecento (Battei, 2002) osserva:
 
«Gli ampi esametri ‘barbari’ della Canzone (strutturati sul modulo fisso + novenario) si piegano duttili tanto alla mirabile rappresentazione dell’orogenesi quanto al racconto della nascente civiltà dell’uomo, fino alle vibrazioni commosse dell’animo umano davanti alle prime esperienze dell’esistenza».
 
E dunque qui, ma soltanto di passata, faremo due rimandi che ci sembrano necessari: quello al bucolico Virgilio e quello allo scettico Lucrezio. Dunque, lo Zanetti convogliava attorno alla cultura parmigiana una serie di esperienze quanto mai importanti, esperienze che andavano a confrontarsi e a cozzare contro una modernità avvertita a Parma più come una scommessa che come un ingresso di autentiche nuove idee letterarie. Poteva essere l’estrema propaggine della “scuola crepuscolare”, poteva essere il primo soffio della ventata futurista, poteva essere la convinta erudizione della proposta storica di fine Ottocento.
Jacopo Bocchialini (1878-1965) è a tal senso un esempio notevole; poeta, critico, storico, erudito, figlio di una parmigianità non sentita quale valore assoluto, ma calcolata sul ritmo prezioso degli eventi, delle occasioni, dei riporti del tempo, giornalista della «Gazzetta di Parma» del «Momento»di Torino, della «Gazzetta dell’Emilia», ma soprattutto di «Aurea Parma» che, nata nel ’12, fu da lui diretta tra il ’20 e il ’25. Il suo volume Figure e ricordi parmensi in mezzo secolo di giornalismo (l’edizione più recente è quella del 1960 del Battei) è una miniera di notizie, dati, giudizi, impressioni.
Aveva studiato la poesia di Alberto Rondani (1922), quella di Luigi Sanvitale nel ’24, e poi i Poeti parmensi della seconda metà dell’Ottocento in un saggio del ’25 e l’anno successivo i Poeti parmensi del secolo nuovo. Nel ’21 Treves gli stampò Nido nella siepe, le poesie: ma fu una testimonianza deludente, e ce ne rendiamo subito conto leggendo l’inizio di «3 dicembre 1918»:
 
                                               Ti chiesi alla gelida spoglia,
                                               al gelido labbro ti chiesi
                                               baciai la tua fronte marmorea,
                                               serrai i braccini distesi…..
                                               Dov’eri, dov’eri?
                                  
Era altra e ben altrimenti sentita davvero la poesia di quegli anni. La impersonava meglio, pur non essendo per niente affascinata dall’avanguardismo letterario, Francesca Morabito
 
La Morabito, nata a Parma nel 1893 e morta a Monticelli Terme nel 1967, resta tra i più acuti studiosi della poesia pascoliana che avvertiva misteriosamente coincidente con le proprie vicende personali (nacque in una vecchia casa in fondo a via D’Azeglio, il padre ingegnere di origine abruzzese era morto prima che lei nascesse, la madre Vittoria Ferrari rimasta sola e povera compì il miracolo di conseguire in breve tempo il diploma di maestra elementare, e Francesca si laureò in Lettere a Bologna fra dure ristrettezze economiche…) superate solo grazie ad una forte consapevolezza d’ingegno e di buona volontà. La figura e l’opera della Morabito, che pur passò quasi di nascosto nell’atmosfera culturale della Parma dei primi vent’anni del Novecento, è un esempio suggestivo e ricco d’implicazioni: dalla poesia alla critica, dal sentimento in buona parte crepuscolare (i richiami a Corazzini, a Novaro, a Moretti sono evidenti) alle intuizioni filosofiche del volume che ancor oggi ce la raccomanda «Il misticismo di Giovanni Pascoli» (Treves, 1920) la studiosa che fondò e presiedette il Movimento dei Laureati Cattolici, maturò una vivissima esperienza culturale che filtrò anche nelle poesie Parole a voce bassa, «scritte tra i venti e venticinque anni», informava l’autrice, e dunque attorno agli anni della prima grande guerra ma conosciute solo nel 1969 quando Giorgio Cusatelli le pubblicò su «Aurea Parma».
In questi tenui e garbatissimi versi l’occhio acuto della Morabito individua l’essere, l’immaginare e il pensare come dolci e dolorosi doveri dell’esistenza:
 
                                               I visi dei malati alle finestre
                                               I sogni dolorosi in occhi pesti,
                                               la stanchezza bruciata del pensare,
                                               le non deterse lacrime
                                               i lividi peccati
                                               si lasciano baciare
                                               e lavare
                                               dalla fresca dolcezza
                                               del mattino………
                                                                                  (da Mattina)
 
Oppure, ne contempla, tra preghiera e disperazione, il voto religioso:
                                              
Questa è convalescenza?
                                               io non so rallegrarmi, Signore!
                                               Il mio cuore è così debole
                                               che si chiede tremando:
-         Come farò a palpitare
per amor di qualcuno?-
                                               e d’altra parte, o Signore
                                               io non vi chiedo di amare
                                               io non desidero amare nessuno.
                                                                                  (Convalescenza)
 
 
Ma la vera vocazione della Morabito era la critica. Lontano da lei, però, il senso storicistico ottocentesco di questo intuito che si manifestava principalmente nell’adesione intima allo scrittore e alla sua opera presi in considerazione. Tale è il compito che la studiosa si propone nel saggio sul Pascoli lodato anche dal Croce, lettore agguerritissimo nei confronti del poeta e dei suoi commentatori, ma sbaglierebbe chi volesse in qualche maniera trarre da queste pagine il senso di una compiuta definizione di quella poesia trepidamente sconvolta. Essa è sentita come «istanti sentimentali», come raggiunta e poi dispersa felicità, essendo sempre più vero che «Nella solitudine mistica, là dove altri si smarrirebbe, tremando, egli vive dunque la sua vita intensa e piena».
E’ lontana ormai l’opera carducciana e desanctissiana della lettura critica, e già affiorano gli esiti della crisi novecentesca che a Firenze le riviste d’inizio secolo («Hermes» di Borghese da una parte; e «Il Leonardo» dall’altra di Papini e Prezzolini) avevano alimentato e imposto all’attenzione dei più avvertiti lettori.
Si conservava tuttavia intatto il patrimonio che Idelbrarndo Cocconi aveva tratto, con grande ed esemplare sincerità dal migliore Ottocento, quando Parma era passata dagli ultimi bagliori del piccolo e sconfitto Ducato all’ombra della dimenticanza dentro l’incerto e caotico tessuto del Regno d’Italia. La città viveva allora «tra la modernità narrativa di Edmondo dei languori il capitan cortese e la declamazione socialista e verbalistica della poetessa di Fatalità», – scriveva Bocchialini. E aveva ragione. In realtà, il Cocconi era un umanista romantico che adorava Leopardi e Foscolo, che amava il Pascoli, che ammirava D’Annunzio, che aveva porto l’orecchio a Corazzini, Bettini, Gozzano e Graf, e che aveva ormai compiuto da par suo il proprio capitolo letterario assieme ad Alberto Rondani, Oreste Boni e Luigi Sanvitale.
 
                                                                       II
Il secondo tempo di questa storia che andiamo profilando pur per singoli casi, è rappresentato dall’avvento del Futurismo.
 
 
+
 
Dopo la pubblicazione del «Manifesto» di Marinetti nel febbraio del 1909 su «Le Figaro» parigino, giunsero anche a Parma gli strepiti e i proclami del movimento. Tre sono i personaggi attraverso i quali il Futurismo marinettiano (altro fu quello fiorentino e lacerbiano) passò e lasciò traccia a Parma: Renzo Provinciali, Piero Illari e Renzo Pezzani, il Pezzani degli Anni Venti.
 
Provinciali era un ragazzo quando incontrò le idee di Martinetti. Nato nel 1895, aveva giusto diciassette anni quando pubblicò una raccolta di fiammeggianti versi Perù-Dinamite-Voli-Vita mea nel 1912, dove il suo futuristico entusiasmo non andava oltre una verbosa proclamazione e un rito di maniera già espressi sul giornale «La Barricata» uscito tra il ’12 e l’anno dopo. In Funerale anarchico, una canzone dell’11 che richiama nei colori e nella tensione espressiva il dipinto di Carrà I funerali dell’anarchico Galli, il poeta raffigura scene di dolore e di cupa rabbia sotto un cielo turbato e minaccioso:
 
                                               La bara ondeggia su le spalle curve
                                               De compagni d’un dì;
                                               Macabra e truce,
                                               Una vision di sangue pesa su la folla,
                                               Grande serpente umano, che cammina
                                               Pesantemente su la neve sudicia.
                                               Triste è il cielo sotto il crepuscolo cinereo,
                                               Chiazzato di cupi nuvoloni,
                                               Che passan, minacciosi e lugubri,
                                               Nel cielo plumbeo.
 

Di maggior spessore e impegno è senz’altro invece la figura di Illari (1900-1977). Strana figura, però, la sua: rivoluzionario, comunista, futurista, sempre uomo di punta, sempre battagliero, sempre in prima linea, collaborò con il Pezzani de «La difesa artistica» che favoriva la diffusione delle idee futuriste, ma nel ’23 fondò e diresse «Rovente» che Pezzani stesso ospitò tra le pagine della «Difesa». In pratica, «Rovente» rappresentò l’apporto parmigiano al movimento avanguardistico e ne realizzò, sia pure in maniera frettolosa, le novità.

 

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Illari procede per “cristallizzazioni” e per “stati d’animo” trasformati spesso in “diagrammi” che intendono rappresentare a tutta pagina le forze scaturite e affermatesi in quei tempi di profondi sconvolgimenti sociali e culturali. Osserva in proposito Briganti nel suo volume «Poeti di Parma nel Novecento» (Battei, 2002):

 
«Di là dal giudizio di valore intrinseco dei diagrammi, oltretutto perduti nella loro compiutezza formale, è importante cogliere questo (in più sensi) estremo tentativo di Illari di percorrere, su confini interdisciplinari, strade di linguaggi poetico - artistici pressoché inesplorati: con la preoccupazione tuttavia, attraverso la traduzione - verbalizzazione didascalica, di ancorare l’apparente “gratuità” e irrazionalità del gesto grafico al logos (e con una fiducia così ingenuamente, giovanilmente esibita da commuovere)».
Segnaliamo, sul futurismo parmigiano e dintorni, il volume «Piero Illari: un futurista tra due mondi» di Andrea Briganti e May Lorenzo Alcalà (Uninova ed. 2008) molto informato, documentato e ricco di tracce antologiche che offre anche una vasta analisi del secondo periodo della vita di Illari in Sud America.
 
Ma è con la figura e la poesia di Renzo Pezzani che la cultura letteraria parmigiana dei primi decenni del Novecento compie un deciso passo avanti.
 

 

 

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Lo compie esemplarmente sia in lingua, sia nel dialetto; lo compie per stili e per contenuti; e lo compie non estemporaneamente ma per lunga e appassionata meditazione che giungerà sino alla metà del secolo quando il poeta morirà. Anche Pezzani è un “ragazzo del ‘98”, nasce in Oltretorrente, nel ’15 è volontario tra gli Arditi e al ritorno dal fronte aderisce nel ’19 al socialismo riformista di De Ambris.
Non è un rivoluzionario, Pezzani, nel modo e nei comportamenti; ma piuttosto un utopista, un limpido sognatore di un mondo migliore. Scontata la sua adesione al Futurismo – più che altro attraverso l’irruenza benefica di Illari – Pezzani poi se ne ritrae, come del resto anche dal socialismo. Nel ’24 aderisce per poco tempo anche al fascismo dove individua certi nervosi segmenti di inquietudine, ma tende a occuparsi soprattutto dell’insegnamento elementare che gli è particolarmente congeniale perché gli permette di raccontare in prosa e in versi la vita semplice ai bambini. Sempre più vicino al cattolicesimo, attrattovi dai contatti che ha con l’abate Caronti di San Giovanni, il poeta nel ’26 deve abbandonare la scuola per alcune denuncie che lo segnalano come omosessuale, e si rifugia a Torino dove trova lavoro nella SEI (Società Editrice Internazionale) dei Salesiani. Da quei giorni, allora, inizia per lui una nuova vita mentre Parma rimane sempre sullo sfondo desiderata e perduta.
Nel 1920 aveva pubblicato Ombre da Fresching. Vi si notano venature futuriste, immagini talvolta freddamente espresse e tuttavia intrise d’invenzione e di sentimento. Ma l’acerbità si scioglierà presto in un neocrepuscolarismo dolente e rassegnato che richiama gli esempi delle Poesie scritte col lapis di Marino Moretti (1910) e le raccolte di Corrado Covoni pubblicate fra il 1903 e il ’15: Armonia in grigio et in silenzio, Gli aborti, Rarefazioni.
Pezzani è ancor oggi il poeta – anzi, meglio, lo scrittore che rappresenta ed impersona l’intellettuale parmigiano d’inizio Novecento in tutte le sua caratteristiche di uomo, cittadino e membro della società. È istintivamente un puro, un cantore e custodisce in profondità tutti gli elementi innocenti di una vocazione poetica che, pur alimentandosi di copiose letture – Pascoli in primis, ma anche D’Annunzio e i poeti che più sopra abbiamo ricordato, cui potremmo aggiungere inoltre i testi del primo Palazzeschi dell’Incendiario – resta confitto nella propria identità, sicuro com’è che solo in essa egli può trovare quell’autenticità delle immagini e dello stile che lo divide da tutti gli altri poeti e scrittori molti dei quali solo insistentemente curiosi di estemporanee e passeggere novità.
Il dialetto poi gli permetterà di navigare nel mare sicuro della parmigianità e di percorrervi tutte le strade, da quelle semplici e bonarie delle chiacchere sulle porte di casa a quelle supreme della meditazione religiosa, mescolando – come ci segnalava Pasolini nella Introduzione al suo volume Canzoniere italiano (Guanda 1955)- l’alta e la bassa configurazione delle parole e delle immagini di un’alternanza senza precisi contorni e perciò sempre più difficile dentro “un preparato da laboratorio”. Pezzani non avrà rivali nella poesia dialettale parmigiana del Novecento; avrà compagni di strada come Zerbini e Vicini. Ma nessuno saprà come lui dominare i registri del “pane” della “sua terra” con quell’affetto e quella dedizione che in lui sono nutriti nella contemplazione religiosa dell’esistenza.
Pezzani e la sua poesia – chiamiamo e definiamo così anche le pagine tecnicamente espresse in prosa tanto esse sono vicine al palpito e ai sentimenti dei versi – hanno avuto largo corso per tutta la prima metà nel Novecento, hanno resistito al logoramento che le mode, le ideologie e le avanguardie letterarie sempre producono e sono ancora oggi segno di convincenti “stazioni” di “un teatro epico del nostro Novecento”. Esprimeva questo franco giudizio Gino Marchi nel ’78 presentando una riedizione di Tarabacli edita da Battei. E proprio da questa raccolta traiamo Parpaja dora, esempio di un dramma di solitudine che il poeta vide e descrisse con umana partecipazione e mirabile senso del ritmo narrativo, tra favola, cruda realtà, delicato sarcasmo e profonda pietas:
 
 
I gh’àn dè un let ch’a siga e quater strass
pär quatäres, in fonda a un camaren
Rotta ‘d fadiga e ruzna cme un cadnass
adessa pu nisson la völ avzen.
 
L’è sensa dent e i gh’dan tutt i grosten:
da lè, seduda int al banchett pu bass,
int un canton, la mova i laber pass
ch’an t’sé s’la rumia o s’la diga al so ben.
 
Agh piäz l’ombra, mo ‘l sol pianen pianen
al s’ghe zaqua dill volti in simma ai brass:
un sol coi cavì biond cme ‘l so ragass,
al so ragass, mo quand l’era picen.
 
Quand l’era so, tutt so, coll puten grass
ch’al ghe foräva ‘l stomegh coi dinten
bianch cme gran ‘d riz e pu pontù di spen,
quand la gh’insgnava a fär I so primm pass.
 
Cme l’era bel: un pomm in meza ai riss.
L’al posäva int la con’na e la cuciva
e la cantäva pian parchè ‘l dormiss.
La bagnäva ‘l coton con la saliva.
 
pär fär la ponta da infilsär la goccia,
sensa tazer. E quand al se desdäva
l’al strafugnäva ‘d bäz e la ghe dzeva:
“Brutt baloss! A t’è chi tutt int na poccia”.
 
Mo j ani pass’n e la s’l’è vist soldè.
La l’à basè primma ch’ l’andiss in guera……. .
E l’ù gnu indrè pu omm…. . l’à tot mojera…. .
E la ‘l capisa ormäi ch’la gh’è int i pè.
 
Il ciävi, al mes’c agh j à int il man so nora,
L’è lè ch’la cmanda, ch’la fa l’ält e ‘l bass.
La gh’leza int j oc ch’la speta al dì ch’la mora
pär tgnires tutt al cor dal so ragass.
 
***
 
 
 
 
Un gior’n al Sgnor al diz: - Povra Teresa,
t’è lì ch’at pär un’ombra int na ca vöda.
J ò vist to nora e ‘gh vöi fär färna spesa:
prepära il camizen’ni to nvoda.
 
Cme s’la fuss lè coll cör ch’la l’à da aver
la cuza il camizen’ni e l’è contenta.
L’a s’metta int un canton coi so penser
e la canta pianen che nisson senta.
 
(Ät vist, al Sgnor, cme ‘l te völ ben, Teresa?
E ne ‘t si pu da ti). E a la maten’na
in pressia ch’a ne s’desda la puten’na,
l’andäva a fär na cridaden’na in cesa.
 
Mo la cridäva da la contintessa:
l’äva catè ‘l so paradis in tera
e quand al pret l’alsäva ‘l Pan dla Messa
‘s gh’era davis ch’al Sgnor al ghe fiss cera.
 
Tornand a ca col cör acsì content
Agh mancäva ‘l corag d’arvir la porta.
Con la marletta in man (l’era un moment)
La spetäva che ‘l Sgnor ghe dziss: - Soporta!-
 
‘S desdäva la pute’na e la so vöza
Pareva ch’la portiss al sol d’un gioren.
(-Dagh un bazen, mo guärdet ben dintoren –
Ghe dzeva al Sgnor. – At tgnirò mi la cröza).
 
E long al dì, äd nascost da so nöra
(- Chissà, Teresa, co’ la diz s’la t’senta!-)
La gh’dzeva: coca, ozlen, parpaja dora,
gaten, stela e tutt coll ch’agh gneva in menta.
 
S’agh tocäva un s’cianch d’uva, la fäva fenta
Äd plucärel pianen ch’agh vreva un’ora
Pär fnir’l e inveci l’in mangiäva gnenta.
Un po’ pu tärdi l’al tiräva föra
 
 
 
 
E, gran granen pu nigher che la mora,
la l’imbocäva cme un ozlen, contenta
d’averla lì con cla bochen’na in föra,
e la ghe dzeva:- Spuda via la smenta.-
 
 
Lè inriva al prè, seduda, e la puten’na
in mez a l’erba ch’la catäva i fior,
la s’la covva con j oc, j oc del pastor
che ‘l lovv an gh’à lassè che una pegren’na
 
E l’agh portäva i fior int al scossäl
a von a von, cme quand l’ozlen fa ‘l ni:
-Nona, al pu bel a l’ò cate par ti….. .-
…..Signor! Parapaja dora la sta mäl!
 
L’à sarè j oc, la ‘n ridda pu, la täz.
Il so minen’ni j en cme du fior pass.
La pär äd neva e la scota cme un bräz.
La pär äd sera e l’è fredda cme ‘l giass.
 
E l’è stè csì: al Sgnor che dedlà ‘d sora
al l’à vista zugär in meza al prè
l’à d’aver ditt:- Mo c’l angilen l’è me!-
e int al liber l’à let: Parpaja dora.
 
-Ohi, c’l angiole! Co’ fät sora la tera?
In paradis, in paradis ch’lè ora!-
E l’è stè csì che un dì Parpaja dora
L’à sarè j oc e l’è dvintada ‘d sera.
 
Sensa pu cla puten’na in zimma ai znoc,
co’ fät al mond, da ti, povra Teresa!
Al Sgnor ch’at speta tutt i gior’n in cesa,
ch’at vedda tutt i dì col lussi a j oc,
 
ch’al sa che ormäi an t’in pol pu ‘d sofrir,
l’à lassè l’uss dal Paradis a pressa
parchè te vdiss Parpaja dora. E adessa,
‘t piazrè, Teresa, andär a ca e morir?
 
Giuseppe Marchetti
 
 
 
 
   Portale dedicato alla Storia di Parma e a Parma nella Storia, a cura dell'Istituzione delle Biblioteche di Parma
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